Fioritura dell’artigianato, dell’industria e dell’arte in Alta Val Taro.
Nell’ultimo decennio dell’Ottocento e nei primi anni del Nuovo Secolo le ragioni della civiltà industriale ebbero la meglio fra i nostri monti, nelle nostre valli, operando significativi cambiamenti nelle abitudini di vita di una società, fino ad allora, agraria, contadina, che soprattutto dalle attività dell’allevamento, del commercio della legna, e dei prodotti del bosco traeva il proprio sostentamento, di fatto, tuttavia, mediamente a tal punto insufficiente a crescere una famiglia, da indurre gli uomini a sradicarsi dai propri monti a staccarsi dai propri affetti, per avventurarsi nell’ignoto, in Europa ed Oltre Oceano, dove, lottando contro sacrifici ed umiliazioni, guadagnare il denaro necessario per una vita dignitosa della propria famiglia.
Questa situazione cominciò a cambiare, quando si intravidero migliori prospettive economiche, sociali e culturali, con la comparsa della filiera industriale ed artigianale relativa la costruzione della linea ferroviaria Parma – La Spezia, denominata “ Pontremolese”, la cui funzione era collegare i territori della Liguria e della Toscana con le regioni produttive agricole e industriali dell Emilia-Romagna, del Veneto, e con l’Estero attraverso il Brennero, determinandosi come asse fondamentale per il sistema trasportistico dei territori interessati e di tutto il Paese.
Di fatto, la realizzazione di quel tracciato nel ventre delle montagne e nelle valli del Magra e del Taro diede un notevole impulso alla valorizzazione di potenzialità artigianali e artistiche non solo dei territori, direttamente interessati, ma anche di altre zone in quell’ampia area che si estende fra la foce del Magra e la foce del Taro, con evidenti caratteri di continuità di collegamenti di tipo economico, sociale, culturale, al di là ed anche in virtù della diversità del clima.
Allo sguardo rivolto al passato, tipico della cultura contadina, veniva sostituendosi lo sguardo rivolto al futuro, che implicava la sostituzione di un modo d’essere secondo la continuità della tradizione e, dunque, della imitazione, con un modo d’essere secondo la discontinuità dell’invenzione, nella prospettiva di un divenire senza fine del “nuovo”dello spirito inventivo-creativo, ciò che avrebbe consentito alle popolazioni interessate una vita sempre più all’insegna dell’”esistere,” ovvero dell’essere con il capo fuori e al di sopra della mera sussistenza, piuttosto che del “sussistere”, ovvero dell’essere al di sotto di quella soglia e, dunque, di un vivere prigionieri della necessità.
La scintilla di Prometeo fece esplodere genialità virtuali fino ad allora rimaste irretite nella non consapevolezza.
Ed anche in quel tratto della Valle del Taro compreso fra Borgotaro e Guinadi, fra il 1882, anno i cui furono appaltati i lavori del traforo della Galleria di Valico, ovvero del Monte Borgallo, lunga 7972m., e l’Aprile del 1894, anno in cui il tracciato era ormai pronto per essere inaugurato, il moltiplicarsi di occasioni di lavoro e di guadagno aguzzarono gli ingegni divenendo un forte deterrente contro l’esodo delle popolazioni.
Il traforo della galleria, richiese molto tempo, a causa delle estreme difficoltà di perforazione della roccia appenninica, e a Borgotaro avvennero profondi mutamenti nel tessuto economico, sociale e culturale.
“L’impresa Piatti, addetta ai lavori, installò il cantiere nei pressi della erigenda stazione di Borgotaro, in un raggio di terra che si estendeva fin oltre il torrente Tarodine; allo stesso tempo la medesima effettuò opere di grande potenza idraulica ed elettrica procurando, così, l’energia necessaria Il quartiere San Rocco di Borgotaro, fino ad allora, per lo più costituito dal greto del torrente e da grandi prati, fu contornato da capannoni adibiti, in parte, a deposito di materiali, in parte ad abitazioni di operai, i quali, giunti in quel luogo da ogni dove,.., in seguito vi si stabilirono, chiamando presso di sé anche le rispettive famiglie. Tutti portarono le esperienze acquisite nei loro paesi d’origine. Artigiani, impresari, albergatori, commercianti, locandieri, muratori, fabbri…in tanti contribuirono a creare quella piccola comunità industriale che per anni fece parte della realtà economica del paese e pose le basi a quella d’oggi”.( 1 ).
I lavori della ferrovia diedero notevole impulso alle attività estrattive e a quelle boschive per la fornitura di materiale necessario.
Fu costruita anche una centrale idroelettrica, che fu una vera ricchezza per quei luoghi.
Clima mite, bellezza dei luoghi, lavoro, migliori condizioni sociali, come consigliavano a chi vi era approdato di rimanere, così attraevano altri portatori di ulteriori idee di sviluppo.
Ed ecco, che, anche Casimiro Tagliavini, che già si recava frequentemente in Valtaro per motivi di lavoro, decise di trasferirsi con la famiglia, dalla nativa Colorno, a Borgotaro, fra il 1900-1906, innestando in quell’ambiente la competenza che aveva acquisito in azienda, nelle ghiaie nebbiose o assolate del Po, a Sacca di Colorno, unitamente alla tenacia di una volontà che non cede di fronte alle difficoltà e che da sempre caratterizzava il successo di quelle terre, lontane sì, ma che accolgono il Taro nell’atto del suo darsi al Grande Fiume, sulle sabbie di Gramignazzo di Sissa, non distante da Colorno.
Simile iniziativa d’impresa pigliò il fratello di lui, Antonio il quale si trasferì a Pontremoli.
Casimiro, in un primo tempo, abitò con la famiglia in Largo Roma, dove pare sia nato l’ultimo dei figli, Aldo.
Di lì a breve, Casimiro si trasferì in località San Rocco, sulle rive del Tarodine, dove acquistò un appezzamento di terreno e vi installò quella azienda di materiale da costruzione, che per tanti anni fu una risorsa di materia prima, di lavoro, di arte in Valtaro.
La data di nascita della Ditta Casimiro Tagliavini fu Patrizio fra gli effluii del Tarodine e del Taro, guardata da lontano dai monti Molinatico, Penna e Pelpi, è il 1911, anno, dell’iscrizione alla Camera di Commercio, e come si inferisce da alcune foto di Aldo, che si aggirava con il Padre fra i sassi del torrente.
In quell’azienda si trattava di materiali da costruzione di edifici, di strade, dei ponti, di fognature…Vi si acquistavano tubi in cemento, mattonelle decorate per pavimenti, legname per impalcature, mattone, ma anche artistiche sculture in cemento, in pietra e in marmo, motivi floreali per decorare ville e giardini, secondo il gusto del tempo, prevalentemente Liberty.
Casimiro, intuendo le doti artistiche dei figli Aldo e Antonietta, li impegnò in azienda, dove valorizzarono le doti artistiche ed imprenditoriali inscritte nel loro DNA.
Aldo, in particolare, imprenditore, artigiano, artista, ha fatto dell’arte la ragione della sua vita.
Ultimati gli studi ginnasiali nel collegio “ Ognissanti” di Codogno, dove era divenuto consapevole dell’imprinting classico dell’armonia della forma, negli anni 20-30 ha frequentato la Scuola d’Arte, presso l’Istituto D’Arte di Massa, sotto la guida del Prof.Cesario Fellini, maggior rappresentante del Liberty Versiliese, dal quale apprese anche elementi di tecnica architettonica.
Durante gli anni di studio ( così si formavano allora scultori e architetti ) collaborò alla creazione di alcuni dei maggiori monumenti artistici della città di Massa: vedansi la fontana di Piazza della Liberazione, e, nella chiesa della Madonna del Rosario, opere di restauro al bassorilievo raffigurante i Santi Antonio Abate e Benedetto, nonché a due acquasantiere, al fonte battesimale- tutti in marmo bianco di Carrara e all’altare in legno dipinto e in graniglia di cemento policroma.
Terminati gli studi diede inizio alla sua attività di imprenditore di manufatti in cemento, in marmo, in graniglia, impiegando manodopera, anche femminile, fino a 60-70 dipendenti.
Di una personalità poliedrica, artista ideatore e progettista, disegnatore, scultore, e architetto rimane una sorprendente capillare testimonianza di ornati e arredi per ville e giardini, cancellate artistiche, pilastri, fontane, capitelli, motivi architettonici, nelle valli del Taro e del Ceno e nella Lunigiana, in particolare a Pontremoli, dove ancora oggi si può ammirare il giardino del Teatro La Rosa.
Innovatore e conservatore, consapevole del valore culturale morale, civile , estetico dell’operosità dell’Uomo, si dedicò con straordinaria passione alla salvaguardia del patrimonio artistico in tutti territori menzionati.
Immaginiamo, dunque, di fare un viaggio alla ricerca di tracce, di segni del nostro Artista, di visitare “ quello splendido museo a cielo aperto da lui creato per la sua Valle”.
A Borgotaro per un’ improvvisa sensazione straniante di esotico stimolata dalla percezione di un inconsueto gusto floreale decorativo di colonne, di facciate, di capitelli, di colori a pastello, d’un balzo ti svegli in altri tempi.
E’ per quel diffuso stile liberty di villette che compiono qua e là’ e caratterizzanti Via Piave, Via Neversa, Via Monte Grappa: testimoni silenziosi dell’arte e della tecnica dell’architetto Aldo, il cui stile, per altro, esprimeva il mutare del gusto nel tempo, come testimonia Villa Capitelli, sempre in Via Piave.
Fontane, sempre nel medesimo stile, richiamano quella già menzionata di Piazza della Liberazione, a Massa.
Anche l’Albergo Roma, Palazzo Boveri, testimoniano di suoi interventi.
Un signore anziano del posto, ci informa che un bel pavimento in marmo completava l’arredo della Banca Valtarese.
Nella chiesa di San Domenico, stile gotico, 1499, con successiva aggiunta di forme barocche, è opera sua il rifacimento in cemento martellinato delle colonne distrutte da un bombardamento.
In Via Nazionale, notiamo il balcone del Palazzo Municipale, in Piazza Manara, da lui restaurato.
Visitiamo anche il cimitero, dove ci sorprende il Sacrario Ai Caduti, opera monumentale, sua, in collaborazione con l’Architetto Ennio Mora di Parma.
Oggetto di restauro è stata la Chiesa di San Rocco: qui notiamo il pavimento in graniglia, fatto di suo pugno, l’altare e alcune cappelle laterali.
Continuando questa nostra sorta di anamnesi, a Gotra, nel contesto dei lavori di ristrutturazione della chiesa parrocchiale, lui si è occupato del rifacimento degli archi.
A Compiano, su commissione della Contessa Gambarotta, ristrutturò le bifore del Castello.
Decori artistici liberty si notano a Casola.
Su richiesta di Don Guido Berzolla, lavorò nella chiesa di Montegroppo.
Ad Albareto è opera sua l’edificio della scuola.
Al Boschetto gli si attribuiscono la struttura esterna della chiesa, nonché il battistero in marmo di Carrara e le due cappelle laterali in graniglia di cemento.
Era solito chiamare questa chiesetta “ la Basilichetta”, forse a motivo di risonanze romaniche o addirittura paleocristiane.
A Baselica ammiriamo le edicole- risalenti al 1934 – in stile neo-gotico, sull’altar maggiore, ai lati del Tabernacolo, nonché l’altare medesimo e la balaustra.
Ad Ostia, all’inizio del paese, venendo da Borgotaro, una villetta liberty con colori a pastello, e quei due leoni su quei due pilastri ci dicono ancora di lui .
Ora so perché quella villetta, al tempo della fanciullezza, quando andavo a giocare con Giovanni Battaglioni, che lì abitava, muovesse tanto la mia immaginazione.
Ma continuiamo il nostro viaggio e andiamo diretti a Tarsogno, dove Aldo, accompagnato dalla figlia Lucia, si recava sovente per trattare con il proprietario dell’Albergo Miramonti sui lavori di ristrutturazione da eseguire .
A Tornolo villette, case ristrutturate, pilastri artistici con le sue piccole sculture, il Monumento ai Caduti da lui abbellito sono segni della sua versatile operosità.
Continuando in nostro viaggio “ nella carta “, ovvero, attraverso le carte che Lucia Tagliavini ha scoperto in uno scatolone rimasto per anni nel silenzio di una soffitta, arriviamo a Bedonia.
E Lucia, ad un certo punto del suo scritto citato “ Viaggio nella carta” così racconta. “ E così ho visto papà in compagnia di clienti bedoniesi che trattava di affari e io, mamma e Patrizia in chiesa a San Marco e poi davanti ad una grande e importante fiera di beneficenza che doveva servire probabilmente per opere attinenti alla chiesa e al seminario…ho visto il prato davanti al Santuario con le giostre…e tanti bambini a giocare…Tra le carte con meraviglia scopro anche…la cripta della Madonna di San Marco: mi sono spiegata così tutto quell’andirivieni Borgotaro-Bedonia in ogni momento dell’anno. Quel giorno dal Santuario dove papà aveva incontrato Don Costa, un sacerdote che ha lavorato tanto con lui, ci siamo spostati…”( 2).
Il racconto si riferisce agli anni Cinquanta, quando Lucia era una bambina di otto – dieci anni e già fervevano i lavori per l’edificazione del Santuario della Madonna di San Marco.
Era già agibile la cripta; ma tanto ingegno e tanto lavoro avrebbe dovuto attendersi ancora quel Sacerdote, prima di vedere terminato il Santuario.
Aldo Tagliavini che, già nel 1937, aveva creato degli stucchi nel Santuario incorporato nell’edificio del Seminario – fu certamente un importante riferimento per Don Costa, per le sue doti di progettista, di disegnatore, di artigiano della graniglia, del cemento del marmo, di imprenditore del marmo, di scultore e di ornatista, espressione di una creativa interazione di poesia e di tecnica, in una persona dal cui comportamento traspariva quella nobiltà, segno distintivo di chi vive la relazione con l’idea del bello e, per ciò stesso, del buono, del giusto.
In un’altra occasione Lucia ricorda i tempi in cui, lei bambina, Don Costa si recava da loro e si soffermava nell’ampia cucina – unico spazio riscaldato in inverno- a parlare con papà, e come ogni tanto quel sacerdote, che poteva apparire severo, dalla tasca della tonaca facesse spuntare una caramella, per la gioia di lei e della sorellina Patrizia.
Don Costa dove passava spargeva sempre il seme di una frugale magnanimità, dell’attenzione agli altri, del bene, dell’operosità, dell’ingegno e di una fede pragmatica .
E quel seme, sparso qua e là in ogni suo tempo, avrebbe germogliato altrove in altro spazio-tempo e quell’albero ben radicato nella roccia dei Pradelli di Tiedoli e cresciuto ed educato nel Seminario Vescovile di Bedonia, avrebbe messo fronda sotto un cielo di infiniti orizzonti, di albe e di tramonti…sine die.
Fra l’imprenditore Aldo Tagliavini e Don Costa, non poteva che esserci un intesa profonda, funzione di identità di vedute umane, spirituali ed imprenditoriali.
Li accomunava una autentica onestà che si traduceva in magnanimità, nella fattispecie, nel bisogno di ideare, creare, costruire nel segno dell’utile e del bello per la Gente delle loro vallate.
La collaborazione fa Don Costa e Aldo iniziò nei primi anni Cinquanta, ovvero dall’inizio dei lavori per l’edificazione della Basilica, fin verso la fine degli anni Sessanta, quando questi tornò alla Casa del Padre.
Tutti quei marmi policromi di cui sono rivestiti o fatti il presbiterio, l’altare, l’ambone, il fonte battesimale, le acquasantiere riportano alla mente i frequenti contatti, la stretta collaborazione fra l’imprenditore, artigiano e artista del marmo e quel Sacerdote che investì la propria vita in quell’impresa, lui, tanto devoto alla Beata Vergine, da sembrarne innamorato.
“Sol chi non lascia eredità d’affetti/ poca gioia ha dell’urna”(3).
Ma, aggiungiamo, Aldo e Don Costa hanno lasciato, nei cuori, l’impronta dell’amore, e nelle menti, il germe ideativo, costruttivo dell’utile-bello.
Chi, come noi, ha ricevuto in dono questa eredità, ha il dovere di indicarne sempre l’origine.
E la scrittura è un modo per resistere all’oblio, nello spazio-tempo della memoria che con essa permane e si tramanda.
Ora, Don Costa, per realizzare il progetto della Basilica della Madonna di San Marco, nonché quello dell’Istituto, attiguo, San Marco, a Lui recentemente dedicato(4), ebbe buon fiuto, ed eccellenti doti di discernimento gli indicarono i percorsi giusti e le persone, singoli artigiani e imprese, adatte allo scopo.
In questo modo egli seppe valorizzare le migliori risorse lavorative delle nostre valli, dal monte al piano, dalle sorgenti dei fiumi alle foci.
Quel cantiere diede lavoro per tanti lustri, dai primi anni Cinquanta alla fine anni Ottanta.
Notiamo che il Santuario e l’Istituto sono stati costruiti con blocchi di roccia arenaria, estratti e lavorati nelle cave locali delle Piane di Carniglia.
E, a questo punto, come per le risorse del marmo abbiamo ricordato l’Impresa Tagliavini, in particolare, nella persona di Aldo, scultore e ornatista, così, per l’arenaria non possiamo non rammentare quella grande risorsa che è stata, anche, nella fattispecie, per la costruzione della Basilica della Madonna di San Marco e del contiguo Istituto San Marco, la famiglia Armani, che fa capo al padre Agostino (cl. 1862), esperto artigiano della lavorazione della pietra arenaria, arrivato, nei primi anni del’900 in Alta Val Taro, da Fugazzolo di Berceto, vedovo della prima moglie, con due figli e la seconda moglie, Lucia.
Si stabilì a Tornolo e là, dopo qualche anno acquistò la vecchia canonica – probabilmente un ex-convento annesso alla vicina chiesa di San Rocco -, dove la moglie gli diede altri nove figli, cinque maschi e quattro femmine.
Agostino, assieme al cugino Bercetano Abramo, continuò la propria attività in Val Taro, in particolare nella realizzazione di manufatti di arenaria, tuttora visibili, nella strada provinciale per Chiavari. Venne a mancare in età ancora abbastanza giovane.
I figli Antonio (cl. 1893) con i figli Oreste – che in seguito fu assunto all’AGIP – e Agostino, Cesare (cl. 1904), Angelo (cl. 1907) col figlio Lino, Ido (cl. 1922), si dedicarono alla medesima attività del padre, dapprima come dipendenti o affittuari delle Cave in Piane di Carniglia; poi Cesare divenne proprietario e i fratelli suoi dipendenti fino a quando Angelo e il figlio Lino aprirono una loro cava sul monte di Centocroci, donde provengono le grandi lastre di rivestimento dei pilastri del portico centrale della Basilica di San Marco.
Questi Armani furono tutti ottimi scalpellini di manufatti per l’architettura per edifici importanti, per opere pubbliche, quali piazze e strade, sia in zona che ne nelle province vicine, oltre che in regioni e nazioni diverse.
Meno frequentemente si dedicarono a piccole opere decorative per abitazioni, chiese e cimiteri.
Tornando alla Basilica di San Marco, il materiale lavorato fu in gran parte fornito dagli Armani, ma anche daiF.lli Filiberti di Piane di Carniglia.
Gli Armani, inoltre, si assunsero anche l’onere di abbozzare ipotesi di misure e disegni che sarebbero serviti a realizzare i pezzi da assemblare a rivestimento e decoro della facciata ( ne sono esempi i due piccoli obelischi e il rosone, ora collocato all’interno del timpano, all’esterno del quale è stato composto il mosaico dell’Annunciazione ) e di sorvegliare al montaggio degli stessi con competenza derivante dall’esperienza.
Per la costruzione dei portici laterali con materiale fornito dai F.lli. Filiberti, fu incaricato Ido Armani, che si avvalse dell’opera del nipote Lino e di un valente scalpellino, Mario Lusardi di Tornolo, già dipendente degli Armani.
Anche in questa circostanza Ido ed i suoi collaboratori, oltre a procedere, di scalpello, alla rifinitura dei pezzi, si impegnarono ad aiutare e sovrintendere alla posa in opera dei medesimi.
Gli Armani , mentre mettevano in atto la loro maestria di scalpellini, già operavano sulla soglia della “forma”. Questa, inconsapevolmente, agiva in loro e li chiamava a fare il passo decisivo ad estrarre dalla materia bruta l’icona di una idea, ad inventare da scalpellini, scultori.
E questo fu il destino artistico di Agostino figlio di Antonio, di cui si ammirano i bassorilievi che decorano la cappella Battoglia, nel cimitero di Tornolo, ma , soprattutto, di Ido, nelle cui sculture si riconoscono gli stilemi del Gotico-Romanico, al punto che la mente va ai grandi maestri del XII-XIII secolo, Benedetto Antelami e Nicola Pisano.
A questo proposito, ritengo sia di interesse documentario una visita alla Casa Armani, a Tornolo.
Là, dall’interno di nicchie di pietra su muri medievali, forse di un antico convento del Basso Medioevo, compaiono sculture in arenaria che richiamano quelle dell’Antelami nel Duomo e nel Battistero di Parma: interessanti le allegorie del succedersi delle stagioni.
All’interno della casa, entrando nella sala, sorprende il camino con capitello, abaco ed architrave in stile romanico-gotico.
Il laboratorio di Ido lasciato intatto dalle figlie è rimasto il cuore che ancora palpita della passione creativa di uno scapellino-scultore: gli strumenti, i rudimentali disegni, le modelline, il basso sedile di legno dell’autodidatta Ido rimasti intatti, posati, come ogni sera, in attesa della ripresa del lavoro mattutino sono l’immagine di Lui, che resiste all’oblio, delle sue opere che sfidano la cecità distruttiva del tempo.
Nella località turistica di Tarsogno, a pochi chilometri da Tornolo, sempre sarà possibile ammirare il Monumento al Migrante, scultura in arenaria, in stile romanico-gotico .
Nel cimitero di Tornolo, sulla facciata della cappella mortuaria è visibile uno dei tanti Cristo Risorto ( uno ricorre anche come base dell’altare dell’analogo edificio nel cimitero di Bedonia) e altre decorazioni. Nella chiesa parrocchiale di San Bernardino, sempre a Tornolo, sono ubicati uno stupendo ambone, consistente in un volto d’angelo che, come in assenza di peso, porta un leggio, allegoria cristiana del messaggero della parola di Dio, ed un massiccio seggio del celebrante.
Così, nella parte alta della facciata della Basilica sono opera sua i due eleganti sobri obelischi, già menzionati, mentre nella parete del porticato è visibile il logo del “ JUBILAEUM A.D. 2000 ” , e dietro l’altar maggiore, a sinistra per chi entra, arde una sua lampada, sempre nel medesimo stile.
Diverse icone della Madonna di San Marco sono visibili in foto, su cataloghi introvabili.
La poetica di Ido, scultore artista, è animazione interiore dell’archetipo medievale, romanico-gotico, in cui risuona l’armonia del canto gregoriano.
Nelle sue opere l’arenaria trasuda umore di radici che attingono alla notte dei tempi, negli abissi insondabili dell’inconscio della specie umana e della sua storia.
Per questo motivo le sculture di Ido, memoria della profondità del tempo, ne sfidano l’apparente illusorio divenire.
La pietra arenaria veniva estratta dalle cave di Carniglia e là lavorata, talora rifinita ( è il caso delle arcate laterali del portico del Santuario realizzato negli anni ’80 ) ai piedi del Monte Pelpi, dalla ditta di Cesare e fratelli, come già accennato, nonché da quelle di CFF Filiberti e, più recentemente, Agazzi F.lli, che avevano rilevato la cava Armani.
Le famiglie Tagliavini e Armani sono solo due esempi, a mio parere molto significativi, della fioritura creativa artigianale e industriale in Alta Val Taro, effetto dell’impulso dato ad originarie potenzialità dall’innesto della mentalità industriale nella mentalità contadina, con la costruzione della ferrovia.
Quell’ evento diede inizio al movimento non solo delle merci, bensì, anche e soprattutto delle idee, per cui nelle nostre valli, come già accennato, fu un germogliare di iniziative di impresa , artigianali ed industriali, tipo quella turistico- alberghiera, quella del mobile, del fungo, eccellenza, questa, di Borgotaro e dintorni: in tutto il mondo risuona, da sempre, il nome Bruschi, associato all’aroma del porcino essicato.
A questo punto, mi permetto di accennare ad un esempio di ammirevole sensibilità sociale riferitomi da Don Lelio Costa di Tracosta, parroco di Tiedoli.
Egli racconta che suo nonno Giovanni, durante i lavori di costruzione della ferrovia, aveva aperto un’osteria nei pressi della attuale stazione ferroviaria, ad Ostia, per ristorare con vino e pane i lavoratori affaticati. Lui vendeva, sì, ma soprattutto elargiva gratuitamente con generosità. Ma, ad un certo punto, l’impresa Piatti non fu più in grado di corrispondere il salario agli operai, i quali sempre meno acquistavano vino e vivande, che, tuttavia, sempre più venivano elargiti, gratis, finché l’oste Costa Giovanni, dovette chiudere i battenti.
Ma quella sua generosità fu riconosciuta dalla stessa ditta Alarico Piatti, la quale donò a Giovanni una copia della medaglia di bronzo, che il Parlamento, dietro richiesta dello stesso Piatti, fece fondere a ricordo della storica impresa della perforazione del Monte Borgallo.
Nel retro di quel massiccio dischetto di bronzo è ancora leggibile la seguente calcografia. “ A RICORDARE COME TRA GLI ANNI MDCCCLXXXIII E MDCCCXCIV VINTA OGNI INCLEMENZA DEGLI ELEMENTI FOSSE PER VOLONTA’ DEL RE E DEL PARLAMENTO CON SOMMA DILIGENZA ED INGEGNO PERFORATO IL MONTE BORGALLO A PRESIDIO DELLA PATRIA E INCREMENTO DEI TRAFFICI LA IMPRESA DI ALARICO PIATTI E COMPAGNI CHE LA ESECUZIONE CURO’ E COMPI’ VOLLE QUESTA MEDAGIA INCISA”.
( L’impresa Piatti &Company era una ditta appaltatrice della SOCIETA’ STRADE FERRATE ROMANE ).
Concludendo, devo dire che, avendo io radici sia in Valtaro ( da parte di padre ), che in Valparma, da parte di madre, fin da bambino notavo la differenza di sensibilità, di mentalità, di cultura fra le due valli.
In Valparma nell’immediato dopo guerra, dove il sistema di trasporto e di comunicazione non disponeva che di vecchie corriere o di rari goffi taxi appesantiti da grosse bombole di gas, si viveva entro i limiti di piccoli paesi, secondo i ritmi ripetitivi di una società contadina, dove solo l’eco giungeva di un mondo altrove in pieno fermento ideologico, tecnologico, nella prospettiva del diverso innovativo.
Al contrario in Valtaro, l’avvento della ferrovia dotò di una arteria vitale di scambio di merci, di persone, di idee, di sensibilità, di culture i territori direttamente interessati e tutta la montagna circostante e nelle meravigliose stazioni in stile liberty, nelle quali i capistazione e i manovali andavano a gara per abbellirle di aiuole di piante di fiori di vasche con pesciolini rossi, era un viavai di passeggeri, un traffico di commerci fra i valligiani del Taro e quelli del Magra, portatori gli uni e gli altri di sfumature diverse di sensibilità sviluppatesi sotto il medesimo cielo, in un clima diverso.
E si respirava il sapore del diverso.
Si immaginavano mondi diversi.
Si sognavano avventure in luoghi lontani
suggestionati dall’idea del viaggio
che la ferrovia induceva.
(1) Lucia Tagliavini, San Rocco di Borgotaro tra ‘800 e ‘900.
(2) Lucia Tagliavini, Viaggio nella carta.
(3) Ugo Foscolo, Dei sepolcri.
(4) La cerimonia della dedica dell’Istituto San Marco a Don Costa, ovvero, al suo costruttore, data 25 Aprile 2022.
(5) Per una documentazione storico-tecnico- scientifica, vedasi Gianpiero Salvanelli, La ferrovia Parma-Spezia, Luna Editore ( Società Editrice Ligure Apuana), 1997.
***Ringrazio, la Signora Lucia Tagliavini , il Dott. Flavio Armani, nonché Don Lelio Costa, Parroco di Tiedoli, per essersi resi disponibili a fornirmi le necessariae documentazioni.
Viareggio, 03/09/2022. Romano Costa.